La
gioventù francescana di Cava de’ Tirreni domenica 15 marzo si è recata presso
l’I.C.A.T.T. di Eboli, un istituto a custodia attenuata per il trattamento
delle tossicodipendenze e/o alcoldipendenze. L’istituto accoglie mediamente
circa 50 detenuti con caratteristiche ben definite: giovani di età compresa tra
i 19 e 45 anni, tossicodipendenti e/o alcolisti provenienti dalla provincia di
Salerno o dal territorio della Regione Campania, con un basso indice di
pericolosità sociale. La struttura di particolare rilievo storico è all'interno
del Castello medievale di Eboli.
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Noi Gifrini prima di entrare |
In quel momento iniziano a
prendere piede nel nostro animo sentimenti di timore ma anche mistero e
stupore. A primo impatto, nessuno riconosce chi sono i detenuti, anche perché
siamo abituati ad un immagine del "carcerato – tipico”, muscoloso,
tatuato, non curato in volto. Tutti i sentimenti iniziali svaniscono quando
Fra' Gianfranco decide di sostituire la consueta omelia dando spazio alle
parole che ogni detenuto sentiva di condividere. È questo il momento più
toccante dell’ esperienza: la mente inizia a distinguere le figure dei detenuti
ma ben presto viene contraddetta dal cuore che riconosce nella persona che
parla un fratello.
La distanza formale che divide noi
ospiti dai detenuti viene spazzata via dalle parole di questi ultimi, cariche
di rammarico, a volte tristezza, ma pronunciate con grande spontaneità e
orgoglio. Le diverse testimonianze ci fanno calare nelle vicende vissute dai
detenuti, mettendoci a contatto con le realtà quotidiane che, con indifferenza
e superficialità, apprendiamo dai media convinti che non ci appartengono e non
ci possano sfiorare minimamente. Dall’ ascolto è possibile tracciare un filo
conduttore che unisce le diverse parole: il desiderio del perdono. Desiderio
che parte dalla consapevolezza dell’errore fatto a danno non tanto di sé ma
quanto nei confronti delle persone che si hanno intorno e che ci vogliono
bene. Infatti ascoltiamo un papà
detenuto che ha lasciato un figlio ancora piccolo costretto a convivere con la
mancanza ingiusta della figura paterna. Un desiderio di perdono che si mette in
moto e sfocia nella voglia di ricominciare grazie ai programmi di
riabilitazione che ogni detenuto sceglie di intraprendere consapevole del loro
valore non soltanto ai fini della pena (pensiamo ai permessi di vedere i
parenti durante le visite all’istituto fino a giungere a veri e propri permessi
di libertà part-time ottenuti grazie alla buona condotta) ma anche morale. Le
parole dette raggiungono il cuore perché toccano aspetti che noi diamo per
scontati nella nostra vita ma che scontati non lo sono: pensiamo alla libertà
abusata un po’ da tutti noi ma assaporata dai detenuti. Cogliamo questi
sentimenti soprattutto dalla testimonianza di Francesco che racconta l’immensa
gioia di poter aspettare il proprio figlio all’uscita di scuola che si scontra
però con i pregiudizi, come quelli della maestra che non lo riconosce come il
padre, o con il timore di essere visto fuori dal carcere da qualche conoscente
intenzionato a provocarlo o dai carabinieri che potessero iniziare una serie di
controlli.
Da sottolineare ancora la tenacia
e la fermezza con cui Padre Gianfranco ribadisce la bellezza del Vangelo,
bellezza che appartiene a ciascuno di noi in quanto figli di Dio, nonostante
tutte le esperienze negative che possono farcelo dimenticare. Bellezza che
spinge Gesù a dare la propria vita per noi, belli o brutti, credenti e non,
bravi o cattivi. Il messaggio che Padre Gianfranco ha voluto trasmettere è un
messaggio di speranza rivolto a tutti gli uomini, siano essi liberi cittadini,
onesti, premurosi, ma ancora di più per gli ultimi, i poveri perché come dice
Gesù “il medico non va dalla persona sana, ma dal malato”.
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Il carcere è nel Castello medievale di Eboli |
Quello che ci colpisce più di
tutto nel comportamento dei detenuti è la gioia, la gentilezza e la felicità
con le quali ci salutano e ci ringraziano della visita, forse per noi un po’
scontata, ma che acquista molto valore per loro. Quella domenica, come ha detto
un detenuto di nome Mariarco, potevamo starcene a casa tranquillamente tra il
divano, la tv, ecc., ma invece abbiamo scelto di essere lì e questo gesto non
passa inosservato tra i detenuti perché capiscono che non sono soli, che non
sono abbandonati a se stessi, che c’è qualcuno pronto a lottare per ciascuno di
loro.
L’incontro si conclude con una
scena finale al tempo stesso inquietante ma ricca di significato: molti detenuti
si affacciano dalle finestre serrate delle loro celle sul cortile centrale dove
passiamo per raggiungere l’uscita. In quel momento tutti gli occhi si posano su
di noi, quasi come in una scena di un film che siamo abituati a vedere in tv.
Ma lì era tutto vero. Ad un certo punto divenne quasi straziante vedere quegli
sguardi desiderosi di libertà, quasi invidiosi.
L’insegnamento che ci portiamo a
casa da questa intensa esperienza è la consapevolezza che il Signore ci fa
stupendi doni ogni giorno che risiedono nelle persone che abbiamo al nostro
fianco e in noi stessi, doni che dobbiamo apprezzare in ogni momento, metterli
a frutto per il bene dell’umanità e non metterli da parte, trascurarli o
dimenticarli piangendosi addosso o scoraggiandosi di fronte alle difficoltà.
Possiamo dire che è stata
l’occasione giusta per adorare il Corpo ed il Sangue di Cristo, non solo nel
pane e il vino spezzato e donato per noi, ma soprattutto con i fratelli che il
Signore chiama “più piccoli”.
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